Le fonti dell’immaginario dannunziano: le letture e gli amori
Alcune volte – e lo abbiamo già osservato in grandi scrittori come Petrarca e Marino, Manzoni e Carducci – la fortuna di cui un autore gode è il frutto di scelte consapevoli, di una capacità strategica di collocarsi nel centro di un sistema culturale che possa garantirgli le migliori opportunità che il suo tempo ha da offrirgli. In questo senso, l’assoluta determinazione con cui D’Annunzio volle fare di Roma il palcoscenico del proprio debutto trovò, nella sua vivace e spregiudicata sensibilità estetica, lo strumento più adatto. D’Annunzio non fu un uomo dal pensiero profondo e veramente originale, ma un artista capace di sintetizzare con coerenza e grande personalità gli elementi di novità del proprio tempo, così da lasciarci nella sua opera la sintesi perfetta di un mondo. Egli scrisse sempre sotto l’impulso di un gusto collettivo colto nel suo stato nascente, almeno per quanto riguarda la situazione italiana, per alcuni versi “in ritardo” rispetto a quella europea.
D’Annunzio aveva cominciato a “immaginarsi” poeta leggendo Carducci negli anni del liceo; ma la sua sensibilità per la trasgressione e il successo dal 1885 lo portò ad abbandonare un modello come quello carducciano, già provinciale e superato in confronto a quanto si scriveva e si dibatteva in Francia, culla delle più avanzate correnti di avanguardia – Decadentismo e Simbolismo. Il suo giornale gli assicurava l’arrivo di tutte le riviste letterarie parigine, e attraverso i dibattiti e le recensioni in esse contenuti, D’Annunzio poté programmare le proprie letture cogliendo i momenti culminanti dell’evoluzione letteraria del tempo. Fu così che conobbe non solo Baudelaire a Gautier, ma soprattutto Maupassant, Nordau e Huysmans, il cui romanzo À rebours costituì il manifesto europeo dell’estetismo decadente. In un senso più generale, le scelte di D’Annunzio furono condizionate da un utilitarismo che lo spinse non verso ciò che poteva rappresentare un modello di valore “alto”, ideale, assoluto, ma verso ciò che si prestava a un riuso immediato e spregiudicato, alla luce di quelli che erano i suoi obbiettivi di successo economico e mondano. D’Annunzio non esitava a “saccheggiare” ciò che colpiva la sua immaginazione e che conteneva quegli elementi utili a soddisfare il gusto borghese ed elitario insieme del “suo pubblico”. D’altronde, a dimostrazione del carattere unitario del “mondo dannunziano”, è significativo il fatto che egli usò nello stesso modo anche il pensiero filosofico. Gli autori contemporanei più letti in Europa negli anni 80 e 90 furono senza dubbio Schopenhauer e Nietzsche; da essi lo scrittore trasse non più che spunti e motivi per nutrire un universo di sentimenti e valori che appartenevano già a lui da sempre, e che facevano parte dell’atmosfera culturale che si respirava in un continente agitato da venti di crisi nazionalistiche, preannunzio della Grande guerra.
Nel 1895 uscì un saggio-intervista di Ugo Ojetti, Alla scoperta dei letterati, nel quale, accanto alle voci di Verga, Pascoli, Giacosa e dei minori dell’epoca, spicca l’intervento finale di D’Annunzio che si costituisce come vero e proprio “programma” di lavoro culturale e di interpretazione filosofica. Ecco come lo scrittore pescarese delinea il suo rapporto col mondo:
“Il commercio della pura narrativa non era mai giunto a un tale grado di attività. L’appetito sentimentale della moltitudine non era mai giunto a un così rapido consumo di alimenti letterari . Gli stessi giornali politici quotidiani, i quali appunto si rivolgono alle grandi maggioranze, devono quasi sempre l’aumento o la diminuzione della loro fortuna alla qualità dei romanzi pubblicati nelle loro appendici che di giorno in giorno divengono più larghe e più numerose; mentre i librai si affannano a saccheggiare quanti più libri di novelle romantiche e naturalistiche sono comparsi in Francia negli ultimi anni, a ristampare quanti bozzetti trovano nelle ingiallite collezioni di quegli innumerevoli giornalucoli che sostenevano le logomachie tra i veristi e gli idealisti del tempo remoto, a rinfrescare perfino qualche fungo disseccato della antica fungaia sommarughiana… Ma tra il romanzo sottile appassionante e perverso che la donna assapora con lentezza voluttuosa nella malinconia del suo salotto aspettando, e il romanzo di avventure sanguinarie, che la plebea divora seduta al banco della sua bottega, c’è soltanto una differenza di valore. Ambedue i volumi servono per appagare un medesimo bisogno, un medesimo appetito: il bisogno del sogno, e l’appetito sentimentale. Ambedue in diverso modo ingannano un’inquieta aspirazione ad uscire fuori della realtà mediocre, un desiderio vago di trascendere l’angustia della vita comune, una smania quasi incosciente di vivere una vita più fertile e più complessa.”
La scelta di nuovi modelli narrativi e soprattutto linguistici – elemento questo fondamentale nella produzione dannunziana – comportò anche, e forse soprattutto, l’attenzione verso nuove ideologie. Ciò comportò lo spostamento del significato educativo e formativo che la cultura positivista aveva attribuito alla figura dello scienziato verso quella dell’artista, diventato il vero “uomo rappresentativo” di fine ottocento – primo novecento: “è più l’artista che fonde i termini che sembrano escludersi: sintetizzare il suo tempo, non fermarsi alla formula, ma creare la vita”.
Spregiudicatezza e narcisismo, slanci sentimentali e calcolo furono alla base anche dei rapporti di D’Annunzio con le numerose donne della sua vita. Quella che sicuramente più di ogni altra rappresentò per lo scrittore un nodo intricato di affetti, pulsioni e di artificiose opportunità fu Eleonora Duse, l’attrice di fama internazionale con cui egli si legò dal 1898 al 1901. Non c’è dubbio infatti che a questo nuovo legame debba essere fatto risalire il suo nuovo interesse verso il teatro e la produzione drammaturgica in prosa (Sogno di un mattino di primavera, La città morta, Sogno di un tramonto d’autunno, La Gioconda, La gloria) e in versi (Francesca da Rimini, La figlia di Jorio, La fiaccola sotto il moggio, La nave e Fedra). In quegli stessi anni, la terra toscana ispirò al poeta la vita del “signore del Rinascimento fra cani, cavalli e belli arredi”, e una produzione letteraria che rappresenta il punto più alto raggiunto da D’Annunzio nel repertorio poetico. Nei tre libri delle Laudi, ma soprattutto in Alcyone, si riflettono i momenti più felici della sua panica immersione nel paesaggio fiorentino e versiliese. Un’esistenza segnata, per altro verso, da quell’edonismo sperperatore di cui parlavamo a proposito dell’impronta ricevuta dal padre; incurante della realtà e dei sentimenti altrui, D’Annunzio oscillò tra Firenze e la Versilia curando le proprie pubblicazioni, che non erano comunque sufficienti a coprire le spese del suo esagerato tenore di vita, e intrecciando ripetuti rapporti sentimentali con diverse donne. Ma quel periodo si chiuse bruscamente nel 1910 con una vera e propria fuga in Francia per sfuggire all’esercito di creditori che con la sua follia dissipatrice il poeta si era creato. L’arredamento della villa fu messo all’asta e D’Annunzio non poté più rientrare in Italia fino allo scoppio della guerra, nel 1915.