Il mondo secondo D’Annunzio
Il mondo secondo D’Annunzio
I dieci anni trascorsi nella capitale furono decisivi per la formazione dello stile comunicativo di D’Annunzio, e nel rapporto con il particolare ambiente culturale e mondano della città si formò quello che possiamo definire il nucleo centrale della sua visione del mondo. L’accoglienza nella città fu favorita dalla presenza in essa di un folto gruppo di scrittori, artisti, giornalisti di origine abruzzese, che fece parlare in seguito di una “Roma bizantina”. Questo gruppo, di cui facevano parte il giornalista e scrittore Edoardo Scarfoglio, il pittore Francesco Paolo Michetti e il musicista Francesco Paolo Tosti, amava rappresentarsi – nelle opere e nella critica – con l’atteggiamento rude dei provinciali provenienti da una terra selvaggia ma ricca di una profonda coscienza storica, per conquistare, con il fascino dell’esotico, gli ambienti più raffinati della capitale.
Leggiamo a questo proposito ciò che scrisse Scarfoglio nel suo Il libro di don Chisciotte (1885): “Io ritrovavo in Gabriele ingentilite la mie passioni di buttero platonico, e quella tendenza di espansione all’aperto, di riavvicinamento alla santa e selvaggia natura, che mi trasse nei primi anni della gioventù a scrivere e stampare bruttissimi versi. In lui era tanto spontaneo il senso della barbarie e tanto curiosamente commisto a una nativa gentilezza di donna, che lo avreste detto una di quelle querce educata al tempo del barocchismo e potate in guisa da dar sembianza d’una qualche cosa poco selvatica, educata questa per altro e potata da un meraviglioso artefice che avesse saputo dal taglio far nascere come un nuovo albero vivo e bellissimo. Noi andavamo assai spesso a passeggiare insieme, e in quel lungo andare a piedi o in carrozza e nei colloqui, e nella comunione di tutti i pensieri cementavamo il concorde immenso amore dell’arte. O Gabriele, te ne rammenti? Io ricordo con un senso di tenerezza ineffabile un pellegrinaggio che noi facemmo sulla via Appia. Era una mite mattinata di febbraio, e le siepi di bianco spino e di rose canine tuttavia rugiadose pareva che buttassero tutte insieme le gemme novelle alla prime carezze del sole: per l’aria le cornacchie viaggianti dalle terme di Caracalla alla tomba di Cecilia Metella si riversavano con un giubilante clamore di festa. Come la gioventù ci si espandeva lietamente e liberamente dal petto, mentre noi correvamo davanti alle terme tirando al vento colpi di rivoltella, e con che ilare impeto di fame assalimmo la frittata della colazione!”.
La cultura provinciale e vitalistica di cui il gruppo si faceva portatore appariva al pubblico romano, chiuso in un ambiente ristretto e soffocante – ancora molto lontano dall’effervescenza intellettuale che animava le altre capitali europee -, una novità “barbarica” eccitante e trasgressiva; D’Annunzio seppe condensare perfettamente, con uno stile giornalistico esuberante, raffinato e virtuosistico, gli stimoli che questa opposizione “centro-periferia” “natura-cultura” offriva alle attese di lettori desiderosi di novità. Dal 1884 al 1888 egli scrisse come critico d’arte e di cronaca mondana per il quotidiano «La tribuna», firmando con vari pseudonimi; si occupò soprattutto di mostre d’arte, di ricevimenti d’ambiente aristocratico e di aste di antiquariato. Attraverso questa intensissima attività D’Annunzio si costruì un personale e inesauribile archivio di stili e registri di scrittura, da cui attinse poi per le sue opere di narrativa. Attratto alla frequentazione della Roma “bene” dal suo gusto per l’esibizione della bellezza e del lusso, D’Annunzio si era dovuto adattare al lavoro giornalistico soprattutto per esigenze economiche; infatti nel 1883 aveva dovuto sposare, con un “matrimonio di riparazione”, la contessina Maria Gallese, da cui ebbe tre figli (Mario, Gabriellino e Ugo Venerio). Ma le esperienze per lui decisive furono quelle trasfigurate negli eleganti e ricercati resoconti giornalistici. In questo rito di iniziazione letteraria egli mise rapidamente “a fuoco” il proprio mondo di riferimento culturale, nel quale si immedesimò fino a trasfondervi tutte le sue energie creative ed emotive, condannandosi così per tutta la vita ad accumulare debiti e a fuggire dai creditori. Si può quindi parlare, tanto nelle opere quanto nella vita di D’Annunzio, di una idealizzazione del mondo, che viene ed essere circoscritto nella dimensione del mito; la sua fantasia lottò prepotentemente per imporre sulla realtà del presente, vissuto con disprezzo, i valori “alti” ed “eterni” di un passato visto come modello assoluto di vita e di bellezza. Il conflitto tra realtà presente e ideali è ben espresso in questa pagina de Le vergini delle rocce:
“Vivendo in Roma, io ero testimonio delle più ignominiose violazioni e dei più osceni connubii che mai abbiano disonorato un luogo sacro. Come nel chiuso di una foresta infame, i malfattori si adunavano entro la cerchia fatale della città divina dove pareva non potesse novellamente levarsi tra gli smisurati fantasmi d’imperio se non una qualche magnifica dominazione armata d’un pensiero più fulgido di tutte le memorie […] La cupola solitaria nella sua lontananza transtiberina, abitata da un’anima senile ma ferma nella consapevolezza dei suoi scopi, era pur sempre il massimo segno, contrapposta a un’altra dimora inutilmente eccelsa dove un Re di stirpe guerriera dava esempio mirabile di pazienza adempiendo l’officio umile e stucchevole assegnatogli per decreto fatto dalla plebe “.
Uno dei risultati più impressionanti della sua apparizione nel mondo letterario, consolidatasi con la pubblicazione del primo romanzo Il piacere nel 1888, fu la creazione di un vero e proprio “pubblico dannunziano”, condizionato non tanto dai contenuti quanto dalla forma divistica, un vero e proprio star system, che lo scrittore costruì attorno alla propria immagine. Egli inventò uno stile immaginoso e appariscente di vita da “grande divo”, con cui nutrì il bisogno di sogni, di misteri, di “vivere un’altra vita”, di oggetti e comportamenti-culto che stava connotando in Italia la nuova cultura di massa. Dopo un breve soggiorno a Napoli – dal 1891 al 1893 – dove compose il suo secondo romanzo, L’innocente, seguito dal Trionfo della morte e dalle liriche del Poema paradisiaco, D’Annunzio intraprese un’esistenza più movimentata che lo condusse dapprima nella sua terra d’origine e poi ad un lungo viaggio in Grecia, sul panfilo di Scarfoglio. Nel 1897 volle provare l’esperienza politica, vivendo anch’essa, come tutto il resto, in un modo soggettivo e clamoroso: eletto deputato della destra, passò quasi subito, con la famosa e tutta dannunziana affermazione “vado verso la vita”, nelle file della sinistra. Sempre nel ’97 conobbe la celebre attrice Eleonora Duse, con la quale ebbe inizio la “stagione” centrale della sua vita. Per vivere accanto alla sua nuova compagna, D’Annunzio si trasferì nei dintorni di Firenze, a Settignano, dove comprò la villa La Capponcina, trasformandola in un monumento del gusto estetico decadente.